Gli acquedotti sono una delle opere più monumentali e imponenti che gli antichi romani abbiano mai realizzato. Originariamente costruiti per soddisfare le necessità idriche della popolazione, essi finirono per diventare un’affermazione di potenza della città, “la più alta manifestazione della grandezza romana” come li definì Sesto Gacquedotto-romanoiulio Frontino. Prima che nel 312 a.C. il censore Appio Claudio conducesse in città l’acqua prelevata da alcune sorgenti lungo la Prenestina, gli abitanti della città eterna erano costretti a utilizzare quella del fiume Tevere, molto inquinata e portatrice di malattie. Da allora, nel corso di cinque secoli, verso Roma furono condotti 11 acquedotti (oltre all’ Aqua Appia vanno ricordati l’Anio vetus, l’Acqua Marcia, l’Acqua Tepula, l’Acqua Giulia, l’Acqua Vergine, l’Acqua Alsietina, l’Anio novus, l’Acqua Claudia, l’Acqua Traiana e l’Acqua Alessandrina);  non è un caso, quindi, se l’Urbe fu definita Ragina aquarum.  Se si escludono gli acquedotti Alsietino (realizzato nel II sec. a. C. derivando l’acqua dal Lago di Martignano) e l’Acqua Traiana (che risale alla seconda metà del I secolo d.C. e prendeva l’acqua dal Lago di Bracciano) tutti gli altri provenivano dal quadrante est della Campagna Romana e in particolare dalla valle dell’Aniene. Questo territorio, se lo osserviamo da Tivoli, appare ancora oggi come un vasto altipiano verdeggiante, ma in realtà è interamente solcato da profonde e selvagge gole, ed è per questo che gli ingegneri romani edificarono apposite strutture che permisero di convogliare l’acqua verso Roma, come Ponte Lupo (115 metri di lunghezza per un’altezza di oltre 27 metri ed uno spessore di circa 18 metri) o Ponte S. Antonio, che svetta ad oltre 32 metri sul Fosso dell’Acqua Raminga. In tutto sono quasi una quindicina i ponti presenti in questo angolo di Lazio poco conosciuto. Quattro degli acquedotti che rifornivano Roma – l’Anio Vetus, l’Anio Novus, l’Aqua Claudia e l’Aqua Marcia – prelevavano l’acqua da sorgenti nella zona dell’Aniene (i primi due direttamente dal fiume gli altri da sorgenti situate nei pressi di Marano Equo, tra Arsoli ed Agosta, dove ancora oggi attinge l’odierno acquedotto della Marcia) e raggiungevano Porta Maggiore.

Gli acquedotti romani richiedevano una manutenzione regolare per riparare danni accidentali, per pulire i condotti dalla sabbia e da altri detriti e per rimuovere le concentrazioni di carbonato di calcio che ostruivano i canali. Erano previsti, per tale scopo, punti di accesso e di ispezioni a intervalli regolari lungo i condotti interrati. I sifoni che utilizzavano fonti con acqua dura presentavano particolari problemi di manutenzione, a causa del diametro ridotto dei tubi, ma in tratti piuttosto brevi erano realizzati tubi di piombo, ceramica o pietra che permettevano di sostituire o pulire le sezioni danneggiate o ostruite.

Nel 537, durante l’assedio di Roma, i Goti di Vitige tagliarono e resero inservibili gli acquedotti, pertanto i cittadini dovettero tornare ad utilizzare l’acqua del Tevere, con effetti catastrofici sulla salute. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, alcuni acquedotti furono deliberatamente tagliati dai nemici, ma molti di più caddero in disuso per mancanza di una manutenzione organizzata.

Si dovrà attendere il Rinascimento per riportare l’attenzione su queste grandi opere. Ingegneri, architetti e alcuni mecenati cominciarono ad interessarsi ai resti ancora in piedi degli enormi acquedotti in muratura. Nel 1453 Nicolò V fece restaurare il canale principale dell’ Aqua Virgo e altri acquedotti dell’impero romano.

Nel 1583 Gregorio XIII iniziò la costruzione dell’acquedotto Felice che prese il nome dal suo successore, il Papa Sisto V (Felice Peretti), il quale portò a termine i lavori nel 1585.

Il restauro dell’Acqua Marcia, la cui costruzione risale al 144 a. C. ad opera del pretore Quinto Marcio Re,  si deve al papa Pio IX che, nella metà dell’Ottocento, fece ripristinare l’antico acquedotto Marcio, la cui acqua, in onore del papa, fu denominata Acqua Pia ed ebbe una propria mostra, la Fontana delle Naiadi. I lavori, che iniziarono nel 1868, si conclusero nel 1970.

Con questo importante restauro è iniziata la storia moderna degli attuali acquedotti. Retaggi del passato e nuove opere furono unificati in un sistema  di acquedotti organico e complesso.

Oggi l’acquedotto Marcio, alimentato dalle varie sorgenti lungo l’Aniene (alcune delle quali già captate dai precedenti acquedotti romani) fino a Tivoli, ha due canali coperti in parte seminterrati e in parte in galleria. Seguono otto sifoni, atti a mantenere il più possibile il livello energetico per la distribuzione nell’Urbe.

Gli aggiornamenti del Vergine 1930-37, dell’ Appio Alessandrino e del  Felice 1966, del PaoloTraiano 1968 sono una continuazione delle opere del passato. Il nuovo acquedotto del PeschieraCapore ha i primi tratti in galleria, come i gloriosi acquedotti romani. Poi l’energia conservata con il trasporto a superficie libera e la minima pendenza viene utilizzata nella centrale idroelettrica di Salisano. Il primo tratto  in destra Tevere, la cui costruzione avvenne tra il 1927 e il 1957, aveva una portata di 5.500 l/sec., il secondo tratto, in sinistra Tevere, si sviluppò tra il 1966 e il 1980.  Oggi la portata dell’acquedotto è in media intorno ai 13.500 l/sec.

Negli anni ’80 si cominciò a riflettere su come intervenire nel caso di manutenzioni straordinarie del Peschiera. E così che negli anni ‘90 venne realizzato il nuovo acquedotto Paolo, che capta le acque di Bracciano in una zona a sud del lago.

Gli acquedotti descritti terminano nei nuovi “castella”. Si tratta di “centri idrici” derivati dalla tradizione romana della distribuzione con interruzione piezometrica dell’adduttrice e  livello costante.

Sorgiva